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Arte e musicoterapia per donne senza dimora: «La terapia è stare insieme»

Arte e musicoterapia per donne senza dimora: «La terapia è stare insieme»

Elena Baboni, illustratrice e arteterapeuta, prepara i materiali per il laboratorio a casa Willy, un centro di accoglienza notturno a Bologna. Li mette a disposizione delle donne ospiti della struttura, che portano, dentro e fuori di loro, i segni di una vita che non è semplice: quella di strada. Da alcuni tratti, da una certa scelta dei colori, delle forme, del materiale usato, Elena sa che è possibile interpretare il tentativo di esprimere alcune ferite. Storie dolorose, difficili da raccontare, difficili anche solo da dire a sé stesse. Figuriamoci a un estraneo nella struttura di accoglienza. Eppure, qualcosa viene comunicato passando dal cuore alle mani: tramite questo fare creativo è possibile iniziare un dialogo con queste donne.

È il fine dei laboratori di arte e musicoterapia che fanno parte del progetto sperimentale Out of Shade, di cui MondoDonna Onlus è capofila insieme ai partner Società Dolce e ASP Città di Bologna.  Tutto questo per dare supporto alle donne in gravi condizioni di marginalità e contrastare la violenza di genere di cui possono essere vittime.

«Il laboratorio di arteterapia per le donne che sono in una situazione di grande fragilità non è un intervento terapeutico, piuttosto è un momento di benessere ed eventuale prima apertura. Il metodo di riferimento è quello psicodinamico: durante l laboratorio ci affidiamo ai materiali artistici, il setting è la struttura di accoglienza, con persone che vanno e vengono. Una sperimentazione dell’arteterapia “al limite”, si può dire», racconta l’arteterapeuta. Dopo avere proposto i materiali, c’è un primo stimolo per dare il via all’attività e poi la condivisione di ciò che si è fatto. Chi conduce il gruppo può chiedere, per esempio, di dare un titolo agli elaborati, di disporli nello spazio, di spiegare perché si è scelto un materiale piuttosto che un altro.

«È stato stupefacente – continua Baboni – Avevano molto bisogno e voglia di raccontarsi e non me lo aspettavo. L’obiettivo del laboratorio è anche quello di creare un sodalizio di gruppo, con la presenza degli educatori, per creare un avvicinamento al centro antiviolenza».

Qualcosa, la punta di un iceberg, è emerso durante i laboratori: storie e narrazioni che riportano momenti traumatici della vita. «Spesso è visibile un prima e un dopo negli elaborati  di queste donne», come una frattura che è la traccia a colori di un momento particolarmente doloroso. «E, sottotraccia, è leggibile la paura di essere vulnerabili di nuovo, come, allo stesso tempo, il bisogno di protezione», riflette la terapeuta.

Non solo: ma anche il senso di colpa, di vergogna, di invisibilità sono tematiche ricorrenti nei racconti di queste donne.

È quanto racconta Giulia Taddia, dottoressa in psicologia e musicoterapeuta psicodinamica, lavora anche con persone che soffrono di autismo, con problemi psicotici, o che hanno subito dei traumi psicologici. La musica è un mezzo facilitatore che aiuta a potersi esprimere: «Non si tratta di creare una melodia – spiega la terapeuta – quanto piuttosto di sperimentare dei suoni, mettere le emozioni nello strumento e lasciarsi andare». Durante i laboratori condotti da Taddia sono emerse delle ferite e dei temi comuni: «Anche se il tempo è stato limitato, ho avuto percezione di alcune situazioni di violenza e l’ho segnalato alle operatrici antiviolenza di CHIAMA chiaAMA di MondoDonna».

Grazie allo stimolo della musica prima, e della condivisione a parole poi, si aprono mondi e storie complesse e che le persone vorrebbero continuare a raccontare. «Mi sono stupita del bisogno e della voglia di queste donne di aprirsi – dice ancora Taddia – . Mi immaginavo più timidezze, più diffidenza, più chiusure. Invece, dopo un primo momento, ecco che le difese, a mano a mano, crollavano»

“Io sono qui per te” sembra essere il messaggio più importante che questi laboratori hanno trasmesso alle donne che passano nel centro di accoglienza Casa Willy della città di Bologna. Persone che per anni non avuto nessuno che si prendesse cura di loro. La chiave terapeutica, più che nello strumento o nel materiale usato, sta nell’essere visti, riconosciuti, accolti, accuditi. «Il punto è stare lì con quella persona, senza volere nulla, senza giudizio e senza paura. Il fulcro della terapia è stare insieme», conclude Taddia.

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